I sapori dell'infanzia. Proporre i prodotti tipici del territorio non significa chiudersi in una sorta di autarchia alimentare, ma valorizzare la propria identità. La globalizzazione ha due strade: o mangeremo tutti gli hamburger di McDonald oppure impareremo a scambiare i nostri sapori, a proporre con orgoglio, le nostre cose ad altri che con altrettanto orgoglio ci proporranno le loro. E' questa seconda strada che vale la pena di percorrere per fare in modo che la "cucina globale" non diventi "cucina omologata", ma rappresenti piuttosto la somma dei sapori più buoni del mondo, il confronto tra le tradizioni.
Ma dove sono le radici dei sapori della tradizione? Nella storia materiale dei popoli, ma soprattutto nella memoria. Nel ricordo dei sapori dell'infanzia: infanzie comuni apprendono linguaggi comuni con i quali comunicano, ma anche sapori comuni sui quali formano i gusti e li ricercano nel tempo. E ricercandoli ne tramandano la tradizione. Se c'è una lingua madre per ogni popolo, ci sono anche sapori *madre* che contribuiscono a formarne l'identità gastronomica. E solo chi ha un'identità, una *casa*, un legame forte con le proprie radici e il proprio territorio non ha paura di confrontarsi e confondersi con altre *case*, altre radici, altri territori, altri sapori.
Chi ha avuto la fortuna da bambino di crescere bevendo il latte degli alpeggi legherà quel sapore alle esperienze dell'infanzia e ricercherà quel sapore in tutti i latti, in tutti i formaggi. E si confronterà con altri latti e altri formaggi, partendo dal *suo* latte che non sarà necessariamente il più buono, ma quello sul quale si è formata la memoria del gusto. Il latte *globale*, quello dell'industria, porta alla *memoria globale* del gusto.
Se c'è una scommessa da fare per valorizzare differenze e diversità nei sapori e nelle cucine, è una scommessa che deve partire dall'infanzia.
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